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mercoledì 11 dicembre 2013

Ansaldo S.V.A.

 
Il museo storico dell'Aeronautica Militare Italiana è situato in località Vigna di Valle, sulla riva del Lago di Bracciano, (RM). La magnifica esposizione museale comprende ben 60 velivoli che hanno fatto la storia della nostra aeronautica e durante una mia recente visita ho potuto riconoscere il famoso S.V.A., l'aereo che Gabriele D'Annunzio impiegò per compiere lo storico "volo su Vienna" nel 1918. Il velivolo qui proposto è uno degli 11 che parteciparono alla storica azione, mentre quello di D'Annunzio è oggi conservato al Vittoriano.
Il nome del velivolo S.V.A. è un acronimo delle iniziali costituenti i nomi dei due progettisti e dell'azienda che lo realizzò a partire dal 1916 (S.V.A.= Savoia - Verduzio - Ansaldo). Sembra però che al progetto abbia partecipato anche quel Celestino Rosatelli, al tempo molto giovane, che in seguito avrebbe progettato i celebri FIAT CR 32 e CR 42. Infatti l'ala dello S.V.A. presenta i montanti delle doppie ali a forma di W (controtravettatura a trave di Warren), tipici dello stile che distinguerà i successivi velivoli di Rosatelli.

Lo S.V.A. montava un motore con banchi di cilindri in linea SPA da 220 CV. Una potenza che oggi forse farebbe sorridere, ma che all'epoca consentiva a questo velivolo di superare di ben 40 km/h la velocità massima di qualsiasi altro aereo impiegato dal Regio Esercito (principalmente SPAD VII ed Hanriot D1) ed anche di quelli impiegati dal  nemico austriaco (Albatros D-III ed Aviatik D-I). Lo S.V.A. volava infatti ad una velocità di 220 km/h,  ma sfortunatamente soffriva di scarsa maneggevolezza e ciò fu in fine un fattore determinante per far si che i vertici militari lo relegassero al ruolo di  ricognizione aerea  e bombardamento leggero.


Lo S.V.A. fu costruito in varie versioni, migliorate durante il corso della guerra. Uno S.V.A. 5 venne impiegato da D'Annunzio per compiere la temeraria missione passata alla storia come "Il volo su Vienna". L'autonomia di questo velivolo consentiva profonde penetrazioni in territorio nemico ed era dotato di due mitragliatrici fisse anteriori e capacità di carico per due bombe da 25 kg. Le varie versioni prodotte furono potenziate per i ruoli di ricognizione e di caccia scorta ai vulnerabili bombardieri Caproni.
Il 9 Agosto 1918, quasi al termine della Prima Guerra Mondiale, 11 velivoli S.V.A. dell'87° Squadriglia Aeroplani, (detta "la Serenissima"), comandati dal Maggiore Gabriele d'Annunzio (comandante della squadriglia San Marco) , lanciarono 350.000 volantini sopra le teste dei viennesi sbigottiti. L'operazione richiese grande coraggio, viste le difficoltà tecniche che i piloti avrebbero incontrato penetrando così in profondità in territorio nemico e con velivoli privi dei più semplici strumenti di navigazione. L'operazione richiese quasi un anno di preparazione, anche in ragione delle difficoltà nel trovare un velivolo con stabilità ed autonomia sufficiente per una simile trasvolata alpina. Ciò nonostante, la missione ebbe successo e fu di sicuro impatto psicologico, tanto per gli austriaci che per gli italiani. Riporto quindi di seguito il testo originale del messaggio inviato dall'Italia al popolo austriaco:
VIENNESI!
Imparate a conoscere gli italiani.
Noi voliamo su Vienna, potremmo lanciare bombe a tonnellate. Non vi lanciamo che un saluto a tre colori: i tre colori della libertà.
Noi italiani non facciamo la guerra ai bambini, ai vecchi, alle donne.
Noi facciamo la guerra al vostro governo nemico delle libertà nazionali, al vostro cieco testardo crudele governo che non sa darvi né pace né pane, e vi nutre d'odio e d'illusioni.

VIENNESI!
Voi avete fama di essere intelligenti. Ma perché vi siete messi l'uniforme prussiana? Ormai, lo vedete, tutto il mondo s'è volto contro di voi.
Volete continuare la guerra? Continuatela, è il vostro suicidio. Che sperate? La vittoria decisiva promessavi dai generali prussiani? La loro vittoria decisiva è come il pane dell'
Ucraina: si muore aspettandola.
POPOLO DI VIENNA, pensa ai tuoi casi. Svegliati!
VIVA LA LIBERTÀ!
VIVA L'ITALIA!
VIVA L'INTESA!
Nella foto sopra riportata, lo storico lancio dei volantini su Vienna immortalato da uno degli S.V.A. L'azione fu svolta ad una quota di circa 800 metri

Foto d'epoca di uno dei primi esemplari di S.V.A.
 

domenica 8 dicembre 2013

SCACCHIERA ISPIRATA A MONTEAPERTI

Quando mi è venuta l'idea di realizzare una scacchiera d'ispirazione medievale ho iniziato a frugare tra i miei testi di medievalistica, alla ricerca di un episodio della storia toscana ben documentato. La mia scelta cadde in fine sulla celebre battaglia di Monteaperti, che vide contrapporsi la ghibellina Siena contro la guelfa Firenze, addì 4 settembre del 1260 d.C.
La battaglia si svolse nei pressi dei pendii boscosi di Monteaperti ed ancora oggi la vittoria dei senesi riecheggia nella memoria storica della città. Il comune di Siena festeggia infatti l'evento con una fiaccolata che, partendo dalla località chiamata Acqua Borra, procede lungo il torrente Malena (affluente dell'Arbia) per giungere in fine alla piramide che sorge alla sommità del colle di Monteaperti. Le fasi della battaglia sono ormai note: l'Oste senese assalì l'esercito fiorentino che, dopo aver abbandonato l'assedio di Siena, si stava ritirando oltre le colline. La fortunata e temeraria azione provocò ai fiorentini gravissime perdite e la schiacciante vittoria ghibellina portò ad un passo dalla distruzione definitiva di Firenze. Secondo la tradizione, infatti, solo il provvidenziale intervento di Farinata degli Uberti permise di far desistere i vincitori dal proposito di cancellare la città rivale dalla faccia della terra.
All'epoca della realizzazione di questa scacchiera disponevo di materiale iconografico sufficiente per ricreare quattro cavalieri che realmente parteciparono alla battaglia e decisi di usare i pezzi in piombo della Mirliton. Per quanto concerne i cavalieri, scelsi Iacopo dei Pazzi e Bernardino degli Obriachi per l'Oste fiorentina, mentre per Siena rappresentai il Capitano del Popolo Aldobrandino Aldobrandeschi ed il comandante dei cavalieri tedeschi mercenari, Gualtieri d'Astingbergh.
Ecco quindi il risultato finale...

 

sabato 23 novembre 2013

IL CASTELLO DI MONTECCHIO

 
 
Fantastico esempio di architettura militare del secolo XI d.C.  Il castello di Montecchio si trova in Val di Chiana e fu costruito nell'anno 1014. L'anno prossimo compirà dunque 1.000 anni, ma la sua struttura è rimasta praticamente inalterata, concedendoci così l'opportunità di osservare ciò che all'epoca doveva rappresentare un vero e proprio standard costruttivo. Esso presenta una cinta muraria circolare con torri quadrangolari e merlature quadrate. Al centro si erge il cassero (o mastio) edificio principale in genere considerato la residenza del castellano ed anche l'ultima difesa in caso di assedio. Notevole anche l'alta torre di avvistamento, ancora immutata nei secoli e direttamente collegata alle mura . Le altre strutture annesse probabilmente facevano parte di un complesso di edifici logistici adibiti a stalle, armeria, magazzini e dormitori per la guarnigione. Di certo in origine doveva essere presente anche una piccola cappella, così come anche un granaio e delle cantine dove conservare le scorte alimentari in caso di assedio. La forma quadrangolare delle torri è tipica dell'alto Medioevo. Saranno infatti le esperienze delle crociate compiute in Terrasanta a riportare anche nell'ingegneria occidentale la costruzione di torri a sezione circolare, (concettualmente migliori nel deviare i colpi diretti delle artiglierie d'assedio). Tra i vari possessori del castello ricordiamo anche John Hawkwood, il famigerato capitano di ventura inglese del secolo XIV, meglio conosciuto con il nome di Giovanni Acuto. Il monumento funebre equestre del condottiero è ancora oggi rappresentato dal magnifico affresco di Paolo Uccello, collocato all'interno del Duomo di Firenze.
L'incastellamento di cui furono testimoni tanto la Val di Chiana quanto il Valdarno conta più di 200 siti fortificati, testimonianza inequivocabile di quanto la valle fosse considerata un punto strategico di passaggio per coloro che attraversavano la penisola percorrendo le antiche vie consolari romane. I castelli avevano la funzione di proteggere le comunità o i siti strategici della valle grazie alla guarnigione di armigeri che vi risiedeva, ma rappresentavano anche il simbolo del potere costituito, nonché la residenza del signore locale. I motivi di un incastellamento possono essere i più svariati e singolari: Si costruivano castelli per rivendicare la propria signoria su determinati territori, oppure se ne fondava uno in un luogo di passaggio forzato, magari lungo un'arteria di transito o un fiume navigabile, con lo scopo di imporre il proprio dominio ed il pagamento di un pedaggio doganale.  Si poteva anche decidere di fondare un castello per proteggere una comunità, così come accadde ad esempio a Montevarchi (Castrum Monteguarco), fondato nel secolo X d.C. dai Marchesi del Monte di Santa Maria per tutelare dalle incursioni dei pirati saraceni l'antico Ospitalia di Sant'Angelo che sorgeva sull'opposto colle detto "della Ginestra". Ciò potrebbe apparire strano, se paragonato all'immagine che attualmente abbiamo di questi luoghi, ma nei secoli X, XI e XII (periodo di creazione della maggior parte dei fortilizi) l'area risultava praticamente una selva paludosa disabitata. Molti erano i rischi per i viaggiatori che vi si avventuravano e non sarebbe stato infrequente incontrare sul proprio percorso bande armate, predoni o animali selvatici. Dobbiamo inoltre considerare il frequente passaggio di soldataglie che sconvolgeva regolarmente la vita delle piccole comunità residenti nella valle. Gli eserciti infatti, attraversando un territorio nemico, tendevano a razziare, distruggere, bruciare case e raccolti, con lo scopo unico di fare bottino e minare l'economia delle città rivali. Questa economia di guerra, unitamente al sentimento di insicurezza generale, aveva creato un clima di totale brutalità, dal quale i signori locali pensarono bene di difendere i propri interessi. Ecco dunque sorgere nuovi castelli, cingere di mura i borghi e fortificare le stesse abbazie (Un tipico esempio è la Badia di Ruoti, situata nel Valdarno inferiore) evidente segno di quanto anche i santi luoghi fossero in quel periodo esposti saccheggi. Questo fenomeno portò lentamente verso il popolamento della valle, grazie alle esigenze di mantenimento del nucleo fortificato. Il signore e la sua corte, così come anche i soldati, avevano le proprie esigenze, dunque ai piedi del pendio sul quale si ergeva il castello spesso sorgevano borghi costituiti da botteghe di artigiani, mercanti, prostitute e guaritori. Ciò dava vita a nuove comunità, così come anche incrementava la disponibilità di braccia utili al lavoro dei campi. L'economia della zona ruotava quindi interamente intorno al castello ed al suo mercatale, ed era un luogo dove i popolani in caso di attacco esterno potevano talvolta trovare rifugio. Il signore locale si mostrava generalmente ben lieto di assumere questo doppio ruolo di dominus e benefattore delle proprie genti, ospitando nel fortilizio i popolani in cerca di salvezza, ma le esigenze pratiche costringevano spesso a sbarrare il passo a coloro che risultavano inutili alla difesa del castello. Si doveva resistere spesso per settimane o mesi e per questo le bocche inutili venivano espulse e lasciate alla mercé degli attaccanti, in ragione di un minor consumo di cibo. Molte di queste opere militari sono andate perdute nel tempo, alcune a causa degli assedi, altre invece perché una volta venuto meno il loro ruolo strategico erano state abbandonate, oppure smantellate e "riciclate" per ottenere materiali da costruzione. Di alcune rimangono solamente i ruderi ed oggi possiamo solo tentare di immaginare come fossero fatte, ma l'esempio del castello di Montecchio, unitamente ad alcuni disegni dell'epoca confrontati con immagini ortografiche moderne, mi portano a credere che la maggior parte dei fortilizi di questa antica regione avessero una forma circolare, oppure ovale. Essi sorgevano in genere alla sommità di un colle o di una posizione elevata ben difendibile ed erano dotate di mura merlate e torri quadrangolari. Un esempio tipico si trova anche nella forma del castello di Monteriggioni (Siena), oppure nell'ortografia di Bucine, di Ambra e di Montevarchi. Dei castelli che si ergevano in questi tre luoghi oggi non rimane traccia, ma osservando dall'alto la forma degli antichi insediamenti appare chiaro che la forma del perimetro murario doveva avere forma ovale o circolare, seguendo i perimetri naturali del luogo. A Montevarchi ad esempio il castello sorgeva sul colle di Cennano, dove oggi si eleva il convento dei Cappuccini. Il castello venne demolito perché franato a causa della fragile roccia arenaria sulla quale era stato costruito, ma osservando le foto aeree si riconosce un'area oblunga ed irregolare ben delimitata. La stessa caratteristica si riscontra anche nel borgo cresciuto ai piedi del castello, tanto che osservando le foto aeree di Montevarchi si nota ancora oggi il cassero e la forma oblunga dell'antica cinta muraria ormai scomparsa, che ne completava la fortificazione. Sappiamo che il castello di Monteguarco venne venduto dagli eredi del conte Guido Guerra al Comune di Firenze nel XII secolo e che questi, a causa del crollo, spostarono i luoghi del potere costituito nel borgo sottostante, costruendovi mura e cassero. Ad Ambra invece rimane solo parte delle mura, in parte annegate nell'edilizia moderna e considerando come centro dell'antico castrum Ambrae l'attuale piazza Filzi, si nota chiaramente la forma ovale del perimetro. Di Bucine invece conservo un'immagine tratta da un manoscritto dell'epoca, nella quale si riconosce chiaramente una centuriazione di tipo circolare sia per il castello che per il relativo mercatale sottostante. Non tutti i castelli però dovevano seguire questa regola ed è chiaro che ciò dipendeva anche dalla morfologia del territorio. Infatti per quanto riguarda ad esempio Monte San Savino, malgrado esista ancora oggi un tratto delle mura ovali che circondavano il borgo, l'originario castello che si trovava nella zona di piazza Gamurrini aveva una forma quadrangolare, con torri quadrate ai quattro angoli. Ancora oggi, come nel caso di Montevarchi, ne sopravvive il cassero con l'accesso del ponte levatoio.

giovedì 21 novembre 2013

Aggiunto romanzo in bibliografia!!
 
Un'altra epica opera di Juliet Barker riguardante la storiografia inglese nel contesto della Guerra dei Cent'anni.
 
 
 
 
 
 

lunedì 18 novembre 2013

Nuovo testo aggiunto nella bibliografia.

Mostra  di reperti etruschi
 
STORIE DELLA PRIMA PARMA
 

mercoledì 13 novembre 2013

In bus attraverso la Grande Guerra...

 
Per tutti gli appassionati della Grande Guerra, ecco un evento di rilievo che credo susciterà interesse.
 

Monte San Savino Show

Il 10 Novembre si è conclusa l'VIII mostra-concorso internazionale di modellismo "Monte San Savino Show", organizzata presso il comune di Monte San Savino con il patrocinio della Regione Toscana e della Provincia di Arezzo. L'evento si è svolto all'interno del suggestivo complesso museale del "Cassero", un'antica struttura corrispondente in origine alla "rocca dell'Ajalta", conquistata e ristrutturata dai senesi nel secolo XIV.
La competizione modellistica era aperta ai generi Storico e Fantasy, con una grande varietà di magnifici pezzi disposti lungo un percorso che si snodava tra le ampie sale in pietra del complesso museale. Notevole l'organizzazione, così come anche la disposizione delle opere stesse, suddivise per genere nelle due categorie maggiori. Essendo stato in passato un accanito modellista, non ho resistito alla tentazione di farmi un giretto tra le numerose teche che ospitavano incantevoli creazioni, frutto della fantasia e dell'estro di ciascun partecipante. Il Monte San Savino Show ha confermato ancora una volta l'importanza della passione per la storia e per la creatività, uniche forze motrici in grado di ispirare coloro che intendono avvicinarsi a questo intrigante hobby. I soggeti esposti miravano ad un'impressionante riproduzione dei dettagli, con particolare attenzione all'uso del colore ed alla coerenza di luci ed ombre. Ammirevoli i mezzi busti, così come anche i plastici e le riproduzioni di libera interpretazione ispirate a stampe o dipinti d'epoca. Ecco dunque di seguito esposte alcune immagini dell'evento, affinché possiate anche voi ammirare l'abilità degli artisti.

In questa immagine spiccano tra tutte le altre opere i due mezzi busti di antichi romani, raffiguranti un centurione del 180 d.C. (centro dell'immagine) ed un ufficiale di cavalleria del 180 a.C. (destra dell'immagine). Fra le due opere è esposto anche un gladiatore, raffigurante "Commodo, figlio di Marco Aurelio ed Imperatore di Roma". La storia indica tale personaggio come un uomo aggressivo, rozzo e particolarmente incline alla viloenza. Egli amava le arti belliche e partecipava come gladiatore in spettacoli ed eventi pubblici, anche se ancora oggi si dubita fortemente che la sua vita fosse realmente messa in pericolo durante tali prove di coraggio...
Il pregevole lavoro di questo artista mostra la sua abilità nel realizzare trame di tessuti assai complesse. Notevoli i dettagli dell'uniforme indossata dall'archibusiere ottomano visibile alla destra dell'immagine. Pregevole anche l'incarnato del Samurai (mezzo busto a sinistra dell'immagine), così come anche i dettagli del mantello di pelliccia indossato dal guerriero celtico in primo piano...

La scenetta visibile sulla sinistra della foto riproduce il cavaliere inglese Sir Thomas Erpingham nell'atto di ordinare ai propri arcieri di scoccare le prime frecce e dare così avvio alla celebre Battaglia di Azincourt, combattuta in Normandia il 22 Ottobre 1415, nel giorno di San Crispino...
Ammirevole anche la lavorazione mimetica del "falschimjeager" (paracadutista) tedesco, posto alla destra dell'immagine. Egli porta in spalla una mitragliatrice MG-42, dotata del classico bipiede stabilizzatore per la posizione di tiro al suolo...



Incredibile il realismo di questo soldato inglese del secolo XIII d.C. (soggetto in primo piano al centro) con indosso il tipico chapèl de fer, il cappello di ferro a falda larga molto diffuso tra le milizie di quel periodo. La sua cotta d'arme di colore rosso reca l'araldica primitiva della casa reale inglese, corrispondente per discendenza dinastica a quella del ducato di Normandia...
Sullo sfondo dell'immagine si nota anche un carrista tedesco delle divisioni SS-Panzer, che emerge dalla torretta del suo carro armato (la mitragliatrice è una MG-34), mentre all'estrema destra del fotogramma si ammira un paracadutista americano della Seconda Guerra Mondiale, con il tipico soggolo con mentoniera dell'elmetto, un fucile d'ordinanza M1 Garand ed una granata del tipo "ananas" appesa al gibernaggio. Ottimo il lavoro di "sporcatura" del soggetto, finalizzato a conferire un realistico aspetto vissuto. 

Riproduzione di una stampa del periodo fascista. Notevole lo spirito di coerenza ricostruttiva di questo artista, il quale ha reso possibile con la propria opera la trasposizione tridimensionale di una stampa bidimensionale. La difficoltà estreme poste da una realizzazione di questo genere, pongono tale branca del modellismo a pieno titolo tra le sfide più difficili per qualunque modellista.


Il Cassero (foto sopra) si apre frontalmente verso piazza Gamurrini e rappresenta ciò che rimane di visibile del mastio centrale appartenuto alla preesistente rocca a pianta quadrangolare (dotata di fossato e torri ai quattro angoli). In antico si accedeva al fortilizio attraverso un ponte levatoio che aggettava direttamente verso la piazza, la cui forma ancora oggi ricalca il perimetro del portone di accesso. Si nota alla sommità della porta, proprio sotto la chiave di volta dell'arco a sesto acuto, il fiordaliso angioino della Repubblica di Firenze, entrata ufficialmente in possesso del borgo di Monte San Savino e della sua rocca nel 1368 d.C.  Visibili sono anche le due fenditure ai lati superiori dell'accesso, attraverso le quali scorrevano le catene di sostegno del ponte levatoio.
Ammirevole il fatto che un simile evento sia stato organizzato in una sede tanto suggestiva ed attinente. Ciò consente di sposare la passione per la riproduzione artistica alla visita di una struttura antica che racchiude in sé secoli di storia.
Come già detto in precedenti post, il modellismo non costituisce solo un vezzo, o un passatempo futile. Esso ci consente di mantenere viva una memoria tridimensionale della storia, attraverso l'abilità dell'artista. L'età migliore per approcciarsi a simili hobby è quella della prima adolescenza, quando ancora la creatività e la fantasia sono strettamente legate al gioco ed alla capacità di apprendimento. Attraverso il modellismo la mente si espande verso la conoscenza, la manualità, il senso cromatico ed artistico del singolo individuo e per questo risulta essere, al pari di ogni altra attività ludica manuale, un elemento utile a fini educativo-pedagogici.

 
In questa immagine (sinistra) si nota parte dell'antico borgo di Monte San Savino raffigurato in una pianta del 1648. Il cartiglio è stato realizzato in occasione di una contesa per i confini di alcuni terreni.
Si riconoscono: parte delle mura del borgo, la Porta Fiorentina, la Chiesa della Pace (divenuta poi ospedale) ed in fine l'Arco di Monte, che dava accesso ai giardini del Papa.
Il tomo qui presentato è stato esposto al pubblico durante tutto il periodo della mostra-concorso.
 


 
 
Un magnifico esempio di riproduzione 3D
Sempre più frequente, nel modellismo,è la fedele riproduzione di scene tratte da dipinti, fotografie e stampe d'epoca.
 


Non sono mancati i soggeti moderni, come ad esempio questo tiratore scelto americano.
 

 
 
 
 
 
 


venerdì 8 novembre 2013

IL CACCIA "SPITFIRE"


Il Supermarine Spitfire è considerato oggi il caccia britannico simbolo della Battaglia d'Inghilterra, sebbene dovette condividere la gloria di quei giorni funesti con il meno famoso, ma assai robusto e diffuso, caccia Hawker Hurricane.
Lo Spitfire e la sua leggendaria ala ellittica erano il frutto del genio di Reginald Joseph Mitchell, già noto per aver progettato alcuni vittoriosi idrovolanti da competizione per la Coppa Schneider, tra i quali ricordiamo l'S5, e gli S6 ed S6B. La storia di questo caccia è intrigante, in quanto lo Spitfire, oltre a divenire uno dei caccia più rappresentativi del Secondo Conflitto Mondiale, rappresentò anche un magnifico esempio di design aeronautico.
 
Profilo tecnico dello Spitfire e geometria dell'ala ellittica

Mitchell presentò il prototipo dello Spitfire nel 1934 (denominandolo Type 300), in occasione della specifica F 5/34 emessa dall' Air Ministry britannico per l'acquisto di un nuovo modello di caccia monoposto dotato di abitacolo coperto, 8 mitragliatrici e carrello retrattile. I due migliori progetti in gara risultarono lo F 36/34, denominato successivamente Hurricane e lo F 37/34, che prese poi il nome di Spitfire. Entrambi i progetti ebbero un seguito, ma l'Hurricane inizialmente convinse di più l'Air Ministry, divenendo ben presto la spina dorsale dei reparti caccia della Royal Air Force. L'Hurricane però era più lento dello Spitfire e concettualmente obsoleto rispetto ai nuovi caccia che i tedeschi stavano producendo dall'altro lato della Manica. Lo Spitfire entrò quindi in servizio tardivamente rispetto alla sua controparte e per questo motivo non fu mai prodotto in numero sufficiente per sopperire alle prime esigenze belliche. Il caccia di punta della RAF durante la Battaglia d'Inghilterra rimase quindi l'Hurricane, i cui piloti totalizzarono anche il maggior numero di abbattimenti nemici.


Lo Sviluppo:

Lo Spitfire subì numerosi aggiornamenti tecnici comprendendo dalla progettazione alla fine della guerra ben 46 versioni, di cui 33 terrestri e 13 navali. Il prototipo Type 300 era alimentato da un Merlin C da 900 cavalli, ma gli "Spit" delle prime versioni operative vennero dotati di motore a carburatori 12 cilindri V Merlin II e Merlin III da 1030 HP di potenza, con possibilità di spinta supplementare di emergenza pari a 100 HP (grazie ad un compressore) per un tempo limite di 5 minuti. Il sistema di refrigerazione a liquido del motore impiegava una miscela al 70% glicole etilico e l'elica di legno bipala dei primi esemplari era stata rapidamente soppiantata da un'elica tripala Rotol in metallo, a passo variabile e giri costanti, per rendere l'aereo più performante in termini di rateo di salita e maneggevolezza. Inizialmente venne impiegato il carburante a 87 ottani per alimentare il motore Merli, poi quando dagli USA giunsero rifornimenti di carburante con più di 100 ottani, ne risultò un miglioramento delle prestazioni in termini di potenza. Il motore giunse ad erogare 1300Hp.
                     
Supermarine Spitfire Mk. II 
L'armamento standard dell'ala "tipo A" era costituito da otto mitragliatrici Browning calibro 303. L'ala "tipo B" prevedeva due cannoni Hispano da 20mm al posto di due delle mitragliatrici Browning. L'ala ellittica a singolo longherone era il frutto del lavoro di Beverly Shanstone, il quale aveva lavorato in Germania con Ernst Heinkel. Mitchell volle questo tipo di profilo alare perché sembrava essere la più sottile e solida struttura in grado di ospitare ben otto mitragliatrici. Le prime versioni mostrarono un evidente difetto di funzionamento delle mitragliatrici, le quali tendevano ad incepparsi per congelamento. Venne quindi studiato un sistema di riscaldamento assai complesso per l'epoca, che sfruttava i gas caldi del motore per riscaldare l'armamento alare. Quanto al carrello, i piloti non ne furono mai entusiasti. La carreggiata era stretta e l'atterraggio risultava così più difficoltoso rispetto a ciò che si poteva ottenere con il robusto Hurricane. Lo Spitfire disponeva inoltre di una radio rice-trasmittente e di due bombole di ossigeno per alimentare il circuito di respirazione dei piloti alle alte quote. Ciò non era banale, se commisurato ai velivoli progettati negli anni '30. Dalla versione Mk II venne aggiunto un sistema di retrazione pneumatica del carrello, che presiedeva anche all'apertura dei flap.

 Hawker Hurricane Mk. II-B

La produzione di uno Spitfire costava all'Air Ministry ben 9.500 sterline e veniva assemblato nei cantieri della Vickers-Armstrongs, con la denominazione "S" di Supermarine. I primi reparti a riceverlo nel 1938 furono quelli del Gruppo n°19 della base di Duxford, in sostituzione dei biplani Gauntlet. Il primo esemplare consegnato fu il K9789 ed a quanto sembra i primi Spit furono consegnati con solo quattro delle otto Browning, a causa della scarsità di pezzi disponibili. I tempi di consegna rimasero lenti per tutto il 1938, ma accelerarono l'anno successivo, in vista dei nuovi eventi bellici. Il primo pilota a portare in volo operativo lo Spitfire fu Henry Cozens, il quale aveva iniziato a volare sul leggendario Sopwith Camel (lo stesso modello di aereo che Snoopy afferma di pilotare nelle vignette dei fumetti) terminando successivamente la propria carriera sui jet Vampire. Il 6 Settembre 1939 due Spitfire del 74 Squadron, ai comandi dei piloti Paddy Byrne e John Freeborn, abbatterono i primi aerei, ma sfortuna vuole che si trattasse di due Hurricane del 56 Squadron. Il pilota Montague Hulton-Harrop rimase ucciso nell'incidente, considerato come un increscioso errore di "fuoco amico", passato alla storia come la "Battle of Barking Creek". I piloti del 74° Squadron vennero esonerati da ogni responsabilità riguardo all'accaduto, considerando l'episodio un tragico errore di identificazione radar, ma l'Air Ministry impose comunque l'installazione a bordo di tutti i velivoli di un dispositivo di identificazione IFF (Identify Friend or Foe), del peso di 18 kg, in grado di riconoscere gli aerei amici attraverso un rudimentale segnalatore radar.


Esperienze di guerra:                                                           Supermarine Spitfire Mk. II

Sotto i 15.000 piedi lo Spitfire dava il meglio di sé in termini di prestazioni e manovrabilità, superando in questo anche il suo più temibile avversario, il tedesco Messerschmitt Me-109 E. Ma nonostante ciò soffriva di una cronica sottoalimentazione del motore aspirato durante le manovre in picchiata ed il volo rovescio.In questi casi, infatti, una manovra troppo repentina durante un combattimento poteva far spegnere il motore dello Spitfire prematuramente, rendendo così il pilota pericolosamente vulnerabile ad un eventuale inseguitore. Ciò risultava un handicap notevole rispetto al caccia tedesco di Will Messerschmitt, equipaggiato a sua volta con motore Daimler-Benz DB-605 di 12 cilindri a V rovesciata alimentato ad iniezione diretta di carburante tramite una pompa elettrica.
 
Messerschmitt Me-109-E

Tale soluzione permetteva al caccia tedesco la costante erogazione di carburante nella camera di scoppio in qualsiasi posizione di volo. In conclusione, lo Spitfire risultò uno dei migliori caccia mai prodotti durante la Seconda Guerra Mondiale. Non fu privo di difetti di gioventù, ma questi vennero prontamente aggiornati e corretti nelle innumerevoli versioni prodotte durante il conflitto. La produzione aumentò progressivamente e se durante la Battaglia d'Inghilterra operavano solo 19 Squadron equipaggiati con questo velivolo, nel 1941 erano già saliti a 27. Si migliorò la protezione dell'abitacolo e dei serbatoi con 87 kg complessivi di blindatura (da notare che, se colpito, il serbatoio da 80 galloni che si trovava proprio dietro il cockpit del pilota si incendiava, provocando incendio in abitacolo) e sostituendo gli alettoni di legno e tela dipinta con modelli in metallo per agevolare le manovre ad alta velocità. I motori usati furono i Merlin 45 e 46 con varie configurazioni di potenza sempre maggiore. Inoltre vennero applicati parabrezza di vetro blindato per proteggere i piloti, fortemente voluti da Sir Hugh Dowding, comandante del Fighter Command. Da notare che, quando i suoi superiori lo derisero per questa costosa richiesta, egli rispose semplicemente: "Se i gangster di Chicago possono avere i vetri blindati alle loro automobili, non vedo perché non possono averli anche i miei piloti..."


Varie versioni dello Spitfire, con motore Merlin e Griffon

I piloti dello Spitfire si mostrarono sempre soddisfatti dalle prestazioni del velivolo. Gli stessi avversari tedeschi ne apprezzavano le caratteristiche tecniche ed a conferma di tale affermazione ricordiamo l'episodio, ormai celebre, del diverbio che vide protagonisti l'asso della Luftwaffe Adolf Galland ed il comandante dell'arma aerea tedesca Hermann Goering. Quest'ultimo era frustrato dall'inefficacia degli attacchi condotti contro l'Inghilterra, attribuendone interamente la colpa alla "scarsa combattività e mancanza di coraggio dei piloti tedeschi".  Ciò gli creò non poche inimicizie tra quegli stessi piloti, che in realtà ogni giorno rischiavano la vita attraversando la Manica. Adolf Galland all'epoca comandava il 26 Gruppo Caccia della Luftwaffe ed aveva al suo attivo numerose vittorie accumulate sul fronte Orientale. Egli detestava Hermann Goering, considerandolo un gerarca nazista borioso ed inetto. Sembra che un giorno Goering, in un attimo di esasperazione, abbia domandato a Galland cosa gli sarebbe servito per vincere una volta per tutte la resistenza della RAF britannica e Galland, con evidente sarcasmo e sicuro di colpirlo nell'orgoglio, gli rispose con molta naturalezza: "Mi fornisca uno squadrone di Spitfire!"...
 Interessante rivista online
Per tutti gli amanti del genere, suggerisco di dare un'occhiata a questo link, sicura fonte di informazioni utili


 Per tutti gli amanti del genere:

MOSTRA DI MODELLISMO STORICO E FANTASY

I dettagli li trovate al Link di seguito riportato

mercoledì 6 novembre 2013


Ho aggiunto due nuovi romanzi nella sezione "Bibliografia"



domenica 3 novembre 2013

GUGLIELMO IL MARESCIALLO - L'avventura di un cavaliere

Vorrei segnalarvi questo avvincente libro, rientrante nella categoria "saggistica medievale".


Da molto tempo aspettavo di leggerlo con la dovuta attenzione, essendo sempre stato affascinato dalla vita di questo indomito uomo d'arme, la cui fama ha superato i secoli giungendo fino a noi.
Duby riesce ad incantare il lettore ponendo la vita di questo celebre cavaliere al centro di una narrazione romanzata avvincente ed incalzante, ricca di dettagli, spunti, impressioni personali che ben si fondono in una visione completa della quotidianità del XII secolo.
Il libro parte da un'attenta analisi e ricostruzione della vita del cavaliere, ben descritta nella biografia che il figlio (Guglielmo il Giovane) commissionò al poeta trovatore Giovanni, considerato oggi per questo motivo suo biografo ufficiale. La "Chanson di Guglielmo il Maresciallo" è considerata la testimonianza più importante dello stile di vita cavalleresco. Senza questo manoscritto oggi sapremmo ben poco di quali fossero le usanze, i tabù, la liturgia e lo stile di vita imposti dal cavalierato e ciò ci viene raccontato dal trovatore Giovanni attraverso la voce dello scudiero ed amico di Guglielmo il Maresciallo, Giovanni d'Erley.
Guglielmo il Maresciallo (In inglese William Marshal) è stato uno dei più celebri cavalieri di tutti i tempi, così definito secondo la tradizione anche dai suoi contemporanei e dallo stesso re di Francia Filippo Augusto. Egli ha vissuto secondo l'antico codice cavalleresco ed è morto all'età di circa 74 anni, (14 maggio 1219), lasciando dietro di sé un'interminabile serie di titoli ed onori. Cavaliere senza terra nato da modeste origini e distintosi in torneo per le sue doti militari, non disdegnava di battersi in giostra anche contro principi e reali, raccogliendo premi ed onori in gran quantità. Sembra che al suo attivo, alla fine della sua carriera, avesse accumulato più di 500 vittorie contro numerosi nobili e cavalieri del suo tempo, ai quali aveva sottratto (come usava in tali circostanze) denaro, bardature, armi ed armature. Giunse ben presto alla corte del re d'Inghilterra Enrico II, divenendo il protettore ed istitutore dell'erede al trono Enrico il Giovane. Purtroppo attirò le invidie di altri cavalieri e per questo venne accusato ingiustamente di avere una relazione amorosa con Margherita, moglie di Enrico il Giovane, nonché figlia di Luigi VII re di Francia. Dopo essere caduto in disgrazia e bandito dalla corte reale, Guglielmo errò per tornei in Francia ed Inghilterra, ma la fortuna girò nuovamente dalla sua parte quando Enrico il Giovane entrò in guerra contro il padre Enrico II. Egli aveva bisogno di uomini valorosi al suo fianco e per questo accettò nuovamente Guglielmo nel suo seguito, tanto più che Margherita era stata già rispedita in Francia alla corte del padre, re Luigi VII. La sorte del cavaliere però mutò nuovamente quando Enrico il Giovane morì prematuramente di dissenteria nel 1183, nei pressi del castello di Martel. Enrico in quell'occasione affidò la sua ultima volontà al prode Guglielmo, chiedendogli di partecipare al suo posto alla crociata in Terrasanta. Guglielmo obbedì disciplinatamente e si recò a Gerusalemme, da dove fece ritorno solo nel 1187. In Terrasanta era divenuto cavaliere del Tempio e quando rientrò in patria si pose al servizio del vecchio re Enrico II. Questi lo aveva intanto perdonato per aver levato le armi contro di lui quando il figlio (Ernico il Giovane) gli aveva mosso guerra. Guglielmo venne riammesso quindi nel seguito di Enrico II, combattendo al suo fianco anche quando l'altro figlio del re, Riccardo (che più tardi sarebbe stato ricordato come Cuor di Leone), gli mosse guerra dai suoi possedimenti normanni. Ben noto è l'episodio in cui, dopo aver perso la battaglia di Le Mans, Enrico II fuggì dal campo inseguito da Riccardo e per questo Guglielmo si oppose a quest'ultimo, caricando contro di lui a lancia spianata. Guglielmo disarcionò Riccardo colpendone il cavallo e quest'ultimo ricordò l'episodio quando alla morte di Enrico II divenne re d'Inghilterra. Riccardo Cuor di Leone in quell'occasione chiese a Guglielmo di giustificarsi per aver attentato alla sua vita, ma il cavaliere rispose semplicemente che "se avesse voluto ucciderlo, data la propria superiorità nell'uso delle armi, lo avrebbe fatto senza problemi"... Guglielmo, a Le Mans, sapeva bene che stava fronteggiando un membro della famiglia reale e per questo aveva risparmiato Riccardo abbattendone con la lancia solo il cavallo. L'episodio avrebbe potuto concludere la carriera di Guglielmo, ma Riccardo gli riconobbe il valore delle sue intenzioni, mostrandosi generoso e lungimirante. Egli era pur sempre un cavaliere al servizio del re ed aveva giurato fedeltà ad Enrico II, dunque perché rimproverargli una simile lealtà?! Dunque agli occhi di Riccardo il prode Guglielmo si era comportato degnamente.  Da quel momento in poi la vita del cavaliere è costellata di avventure, disavventure e successi tipici della vita di un uomo d'arme del XII secolo. Riccardo gli permise di sposare la nobile Isabella, contessa di Striguil e Pembroke. Guglielmo divenne così I conte Pembroke, ereditando anche ricchi possedimenti in Normandia, per i quali dovette fare atto di omaggio e vassallaggio allo stesso re di Francia. Ormai elevato al rango nobiliare, seppe comprendere gli uomini di potere del suo tempo, agì sempre saggiamente ed evitò di seguire Riccardo alle crociate, preferendo restare in Inghilterra per proteggere il proprio casato dalle insidie di Giovanni senza Terra.  Alla morte di Riccardo Cuor di Leone, servì il nuovo re Giovanni Senza Terra e fu tra i nobili baroni che ratificarono la Magna Charta, considerata oggi il primo embrione delle democrazie moderne. Alla morte di Giovanni  divenne tutore del giovanissimo Enrico III, assumendo la reggenza della corona d'Inghilterra fino a quando il re avesse avuto l'età giusta per governare. Guglielmo protesse gli interessi di Enrico III fino all'ultimo giorno della sua vita ed agì con i poteri di un re fino alla morte. Durante la sua vita partecipò a numerosi scontri armati, dimostrando grande valore e lungimiranza. Combatté la sua ultima battaglia a Lincoln, nel 1217. Morì di vecchiaia nel proprio letto, (cosa rara per quei tempi) nel castello di Caversham. I suoi funerali furono degni di un grande sovrano e vi partecipò tutta la nobiltà del regno.  Al suo fianco, in punto di morte, c'erano le tre figlie, la moglie, il fidato Giovanni d'Erley, i cavalieri della sua casa e solo quattro dei cinque figli maschi. (Il secondogenito, Riccardo, a quel tempo si trovava per suo volere alla corte del re di Francia, Filippo Augusto).

William Marshal 1st Earl of Pembroke 
(Effige tombale con usbergo in cotta di maglia che cinge il volto, nel tipico stile alto medievale)

Guglielmo fu sepolto secondo la propria volontà nella chiesa del Tempio, a Londra, ed ancora oggi riposa assieme ai suoi confratelli templari. Prima di morire, com'era costume fare per un uomo del suo calibro, si liberò di tutti i beni materiale e delle ricchezze accumulate. Affidò al primo genito Guglielmo il Giovane i vasti possedimenti ottenuti dalla dote della moglie, premiò gli altri figli maschi con terre e ricchezze minori, affinché non invidiassero il giovane Guglielmo. Si congedò dalle figlie, ormai tutte maritate con nobili inglesi eccetto la più giovane, (la cui virtù affidò al primogenito Guglielmo) e dalla moglie in lacrime al suo capezzale. In fine donò molte ricchezze alla chiesa ed ottenne così l'assoluzione dei peccati dal legato papale. Premiò i cavalieri della sua casa ed il suo scudiero Giovanni d'Erley con pellicce e tessuti pregiati ed infine cedette ciò che rimaneva ai poveri ed agli ordini mendicanti. All'ordine del Tempio Guglielmo lasciò una preziosa stoffa orientale che aveva riportato dalla Terrasanta ed ordinò che almeno cento poveri fossero sfamati e vestiti il giorno del suo funerale. "Così che nessuno avesse a lamentarsi di lui...". Così, ormai padrone solo del sudario candido che lo vestiva e con l'anima libera dal peso dei beni terreni, l'uomo più potente del regno d'Inghilterra spirò il 14 maggio 1219.
CONCLUSIONI:
Guglielmo visse secondo quelle antiche regole del cavalierato che gli imponevano fedeltà assoluta al proprio signore, sia come uomo d'arme che come vassallo; lealtà, lungimiranza, amore, generosità,  rispetto dell'avversario, disprezzo della ricchezza personale, fede in Dio e coraggio in battaglia caratterizzarono fermamente la sua esistenza, mentre attraversava tutte le tappe dogmatiche poste lungo il percorso del  "buon cavaliere". Non possiamo aspettarci di riconoscere in lui l'icona classica dell'eroe senza macchia e senza paura, poiché egli visse in tempi brutali, durante i quali la visione dei diritti sociali e dei diritti umani aveva tutt'altra connotazione rispetto all'odierna e la violenza in quanto tale faceva parte di questo grande disegno.Guglielmo visse al meglio i suoi giorni, spese ogni anno della giovinezza errando e combattendo in guerre e tornei, nella disperata ricerca di un signore da servire che lo premiasse con un titolo. Come molti altri giovani cavalieri di quel tempo, ambiva infatti ad una ricca dote, ad un matrimonio che gli consentisse di elevarsi al rango della nobiltà cavalleresca. Vi riuscì senza dubbio, ma benché il testo lasciatoci dal trovatore Giovanni tenda a descriverci una figura integerrima e gloriosa, lo stesso Duby disegna il ritrato di un uomo imperfetto vissuto in un mondo altrettanto imperfetto, cresciuto in una società piena di vincoli e rigide regole sociali. Guglielmo il Maresciallo morì giusto in tempo per non assistere all'inizio dell'inesorabile declino subìto dai valori della nobiltà cavalleresca a partire dal XIII secolo, causata dall'incalzante affermazione del ceto borghese e di un'economia europea basata sul commercio.

venerdì 1 novembre 2013

GLADIATORE MIRMILLONE

 Opera realizzata da Chimenti Alessandro

Il gladiatore qui presentato veniva definito dalla tradizione ludica romana "Mirmillone" o "Murmillo", a causa del voluminoso elmo che lo faceva assomigliare ad un pesce (in greco Myrmoros). Nella consuetudine allegorica dei giochi gladiatori il Murmillo costituiva infatti l'avversario naturale del Retiarius, a sua volta armato di tridente e rete, ma poteva combattere anche contro altri gladiatori, come ad esempio il Traex (Trace), quest'ultimo armato con un piccolo scudo (Parma) e la micidiale spada ricurva (Sica). L'elmo del Murmillo (detto Galea) poteva essere realizzato in bronzo o ferro ed aveva un'ampia falda stondata che serviva a deflettere i colpi di fendente provenienti dall'alto, oltre che agire come parasole. La falda aveva prevalentemente una forma stondata, priva di spigoli vivi sulla quale la rete del Retiarius avrebbe potuto impigliarsi. (Questa caratteristica sarebbe poi stata amplificata ai massimi livelli sull'elmo di un altro tipo di gladiatore, concepito esclusivamente per la lotta contro il Retiarius: il "Secutor"). L'elmo conferiva una buona protezione per la testa, ma era estremamente pesante ed inoltre l'enorme celata posta davanti al volto, dotata di piccoli fori, consentiva minima areazione e visibilità. Sopra la Galea si trovava una cresta (Lophos) sulla quale veniva rappresentato un pesce (Murma) . Ciò enfatizzava il ruolo che il Mirmillone rivestiva nel contesto dei giochi gladiatori; egli era infatti armato con un grande scudo (Scutum) ed un gladio (Gladium) con i quali affrontava il Retiarius armato di rete da pesca e tridente. Si veniva a creare così per il pubblico l'immagine spettacolare ed allegorica dell'eterna lotta tra il pesce ed il pescatore, nella quale il Mirmillone poteva agire come una Murena, nascondendosi dietro il proprio scudo (immagine simbolica dello scoglio) ed aggredendo l'avversario con fulminei attacchi spuntando da dietro di esso. Il braccio del Mirmillone era protetto da una "Manica" di tessuto imbottito, mentre la gamba veniva coperta con uno schiniere chiamato "Ocrea", più corto di quello usato da altri gladiatori in ragione della maggiore ampiezza dello scudo.

I giochi gladiatori costituiscono una delle più antiche tradizioni del mondo romano. L'immagine di questi guerrieri, votati all'estremo sacrificio per appagare la sete di divertimento del popolo, rappresenta una delle immagini più nitide giunte fino a noi dall'antica Roma. Il mondo del cinema e della narrativa d'intrattenimento ha spesso enfatizzato eccessivamente l'aspetto ludico e spettacolare dei giochi gladiatori, tanto da mettere in secondo piano la vera natura di questi spettacoli e dei suoi protagonisti. La tradizione del duello all'ultimo sangue tra guerrieri risale infatti a tempi antichissimi e da recenti studi condotti sull'argomento si evince che la cultura romana ha ereditato questa usanza dalla ben più antica e strutturata cultura etrusca. Il rituale del duello, originariamente, aveva una valenza propiziatoria e si svolgeva con buona probabilità in occasione di funerali eccellenti, al fine di onorare il defunto. Dunque un rito riservato a propiziare il passaggio dei morti nell'Ade, placando con il sangue del sacrificio gli spiriti degli inferi. Questo rito in principio era riservato ai funerali dell'aristocrazia e della nobiltà etrusco-romana ed è noto che, ancor prima dei duelli fra guerrieri, si fosse ricorsi anche ai sacrifici umani. Ciò derivava quasi certamente da influssi della tradizione greca, ma in tempi successivi, ritenendo troppo barbara una simile pratica, si optò per il duello rituale tra guerrieri che all'epoca venivano definiti Bustuarius. Nella Roma delle origini i Bustuarius erano guerrieri che combattevano attorno al Bustus, la pira funebre del defunto. Secoli più tardi i giochi gladiatori assunsero connotati ludici finalizzati a divertire un pubblico più o meno vasto. Giochi gladiatori potevano svolgersi infatti tanto nelle arene a pro del popolo, quanto come spettacoli privati organizzati direttamente nelle ricche ville dell'aristocrazia. Che si trattasse di intrattenere il popolo o l'élite romana, il combattimento tra gladiatori divenne comunque tanto diffuso da essere praticato in ogni angolo della Repubblica e successivamente dell'Impero. I governanti romani usavano organizzare grandi spettacoli, spesso della durata di giorni o settimane, con lo scopo di intrattenere le masse a fini politici e propagandistici. Si costruirono arene sempre più grandi e spettacolari, dedicate ad ospitare i guerrieri e le infrastrutture necessarie per mettere in scena spettacoli scenografici, così come anche le palestre e le scuole di combattimento.


Dietro al mondo dei giochi gladiatori (Munera) si celava un vero e proprio indotto, un'industria dello spettacolo che si occupava di mettere in scena la vita e la morte dei guerrieri che vi prendevano parte. Il proprietario della scuola gladiatoria era il Lanista, un libero imprenditore che affittava i propri gladiatori all'organizzatore dei giochi (Editor o Munerarius). Egli traeva profitto dal "noleggio" dei propri combattenti e ne curava scrupolosamente tanto la preparazione fisica, che la salute. I gladiatori, erroneamente a quanto si è spesso detto, non erano merce facilmente sacrificabile. Addestrarli , curarli e nutrirli con cibo adeguato a mantenerli in vigore fisico costituiva uno sforzo economico notevole e per questo nessun Lanista sarebbe stato lieto di vedere i propri investimenti perire tanto facilmente nell'arena. A tale scopo si preferiva sacrificare condannati a morte, carcerati o semplici schiavi, da gettare nell'arena come "carne da macello" per allietare il pubblico con lo spettacolo del sangue. Di conseguenza, le uccisioni ed i duelli all'ultimo sangue tra gladiatori non risultavano poi così frequenti quanto si è sempre creduto, benché il destino del gladiatore sconfitto dipendesse esclusivamente dal giudizio del pubblico e successivamente dell'Imperatore. Se un combattente aveva combattuto con valore, sebbene sconfitto, poteva sperare di aver salva la vita grazie all'acclamazione del pubblico. Altrimenti, se si riteneva il gladiatore non meritevole di salvezza, si alzava il pollice verso l'alto gridando "Iugula!". L'estrazione sociale dei combattenti poteva essere la più varia possibile. Si trattava spesso di schiavi, ma vi erano anche guerrieri professionisti, cioè liberti o liberi cittadini che tentavano la fortuna attraverso la gladiatura. Potremmo paragonare alcuni di loro ai nostri attuali idoli calcistici. I gladiatori venivano considerati atleti ed alcuni divenivano vere e proprie celebrità, accumulando ingenti ricchezze. Il loro sangue, se ingerito, era considerato afrodisiaco e le matrone romane pagavano a caro prezzo il privilegio di trascorrere una notte con i loro guerrieri preferiti. Come ben sappiamo, coloro che si trovavano in una posizione di schiavitù potevano sperare di riscattarsi combattendo nell'arena. Ai più valorosi veniva così concesso il "Rudis", la spada di legno simbolo della libertà e benché la vita del gladiatore fosse irta di pericoli, ciò avvenne più frequentemente di quanto si possa immaginare.
Ogni gladiatore aveva un ruolo predefinito e rappresentava nell'arena una figura allegorica finalizzata a divertire il pubblico e ricreare scene riconoscibili. Ad ogni tipo di gladiatore (Mirmillone, Secutor, Retiarius, ecc..) veniva opposto un altro gladiatore di abilità simmetrica, cioè che possedesse dei vantaggi e degli "handicap" tali da rendere i due guerrieri alla pari, con il fine ultimo di creare uno scontro quanto più equilibrato possibile. L'uno non doveva primeggiare sull'altro ed entrambi dovevano avere svantaggi e vantaggi in egual misura, nell'ottica di uno scontro onorevole. A tal proposito notiamo come il Mirmillone risulti meglio armato e difeso del proprio avversario Retiarius (privo di scudo o armatura ed armato solo di tridente e rete), ma rispetto a quest'ultimo il Mirmillone difetta in mobilità (l'elmo è pesante e limita i movimenti), ridotta visibilità e scarsissima ossigenazione (a causa della celata forata). Dunque massima visibilità opposta a massima protezione ed anche agilità opposta a forza d'attacco... Lo scontro appare così assai bilanciato e l'esito finale reso incerto solo dalle variabili umane del guerriero, come l'intelligenza, la scaltrezza ed il coraggio individuale. Il Mirmillone, se vorrà aver ragione dello scontro, dovrà agire preservando le energie, evitando di consumare il poco ossigeno che filtra dalla celata. Inoltre dovrà ruotare continuamente su se stesso per non perdere di vista l'avversario, compensando così la scarsa visibilità e proteggendosi continuamente dalle finte e le "trappole" nelle quali il Retiarius cercherà di attirarlo per avvolgerlo con la sua rete. Esattamente come un pesce nella rete del pescatore il Mirmillone, se catturato, non avrà possibilità di liberarsi e sarà costretto a soccombere al Retiarius.

domenica 27 ottobre 2013

ARTIGLIERIE MEDIEVALI A POLVERE NERA

 
L'immagine qui riprodotta mette in evidenza una tipica fase d'assedio del secolo XV, estrapolata da un testo miniato del Froissart. Come si può ben notare alcune bombarde del tipo "a doghe" sono state posizionate sopra una sorta di intelaiature di legno, pronte per essere usate contro le mura della città. Le artiglierie a polvere nera erano già in uso nel secolo XIV, ma non se ne apprezzeranno impieghi realmente efficaci fino al secolo XVI. Le bombarde che venivano usate nel '400 erano prodotte partendo da lamine (doghe) di bronzo o ferro sovrapposte ed unite fra loro attraverso la battitura a caldo, usando un'anima di legno come supporto per conferire alle lastre la curvatura desiderata. Le lamine così unite non avrebbero però potuto sostenere a lungo la pressione esercitata dallo sparo e per questo vi venivano apposti degli anelli di contenimento in ferro, battendoli a caldo e spingendoli a forza nella loro sede lungo la canna della bombarda. Un processo di lavorazione molto lungo, dunque, che avrebbe dovuto attendere i progressi della metallurgia per creare bocche da fuoco più efficienti ed efficaci. Le bombarde medievali infatti potevano facilmente esplodere o fessurarsi per l'enorme pressione esercitata dai gas scaturiti dalla detonazione ed inoltre risultavano estremamente difficili da trasportare. La loro costruzione era costosa e richiedeva grandi quantità di bronzo e di ferro, quest'ultimo soprattutto non sempre disponibile. La tecnica di impiego delle artiglierie medievali dipendeva dall'esperienza degli artiglieri che la utilizzavano. La quantità di polvere da sparo da impiegare ad ogni salva veniva decisa empiricamente dal mastro artigliere e collocata nella culatta della bombarda per mezzo di una specie di "boccale" che veniva poi calzato a pressione per mezzo di una zeppa di legno. I proiettili sparati erano generalmente di pietra e la precisione dello sparo risultava inaccurata. Le bombarde più pesanti venivano poste direttamente sul terreno e gli artiglieri provvedevano a scavare fosse o creare terrapieni sotto di essa per regolarne l'inclinazione. Un lavoro  quindi sporco, faticoso, caratterizzato dal fragore assordante delle detonazioni, dall'odore di cordite e zolfo, dall'intenso calore e dal lampo abbagliante dello sparo. Per tutta questa serie di motivazioni tutt'altro che rassicuranti le bocche da fuoco rimasero per lungo tempo poco diffuse tra le macchine d'assedio ed ancor meno presenti sui campi di battaglia. Si trattava infatti di congegni che venivano guardati con diffidenza tanto dai soldati quanto da coloro che si trovavano a comandare gli eserciti, risultando all'atto pratico costose e discutibilmente efficaci.
Nella stessa immagine si nota un artigliere posto sul retro di una delle bombarde, ritratto nell'atto di accendere la carica esplosiva ponendo un bastoncino infuocato vicino al "focone", foro posto sulla culatta del cannone e che aggettava direttamente alla camera di scoppio. L'abbigliamento dell'artigliere appare del tutto simile a quello di un normale fante del XV secolo, con un elmo a bacinetto ed una corazza a piastre che protegge il busto. Da notare la varietà di colore dei tendaggi che compongono l'accampamento dell'esercito francese assediante, rappresentati con una serie di acquartieramenti a pianta circolare ed ottagonale. Interessante anche notare la conformazione delle mura che difendono la città assediata: l'autore ha riprodotto un ponte di pietra che domina l'accesso alla porta principale, mentre le torri difensive appaiono di forma circolare, soluzione ingegneristica tipicamente adottata per deflettere meglio i colpi dell'artiglieria. Tutto attorno alle mura scorre un fossato difensivo allagato e sullo sfondo dell'immagine, là dove viene rappresentato il mare, si nota una flotta di navi alla fonda, probabilmente costituita da "cocche" o "caracchi", poste a sbarramento navale davanti ad un estuario.
In questa dettagliata raffigurazione di assedio del XV secolo si nota chiaramente la tecnica con la quale venivano impiegate le prime artiglierie a polvere nera. Una volta posizionata la bocca da fuoco nei pressi delle mura, si costruivano paratie mobili in legno per proteggere gli artiglieri dal tiro di frecce nemiche durante le fasi di caricamento. Al momento dello sparo, la paratia basculante veniva sollevata tirando alcune corde e l'artigliere poteva accendere la polvere da sparo avvicinando una miccia accesa al "focone" (foro posto sulla culatta posteriore, attraverso il quale si accedeva direttamente alla camera di scoppio). Una volta eseguito lo sparo, la paratia veniva nuovamente abbassata per vanificare il prevedibile tiro di frecce da parte dei difensori. Da notare l'abbigliamento dell'artigliere, anche in questo caso rappresentato simile ad un fante. Il duca di Alencon è stato qui raffigurato in sella al suo cavallo rivestito del relativo drappo araldico. Il duca indossa un'armatura a piastre completa ed un elmo a bacinetto dotato di visiera mobile, entrata in uso dopo il primo ventennio del '400. All'estrema destra dell'immagine troviamo invece un balestriere intento a ricaricare la propria balestra attraverso un congegno a manovella del tutto simile nel suo funzionamento a quello chiamato "accrocco".
 
 
Nella rappresentazione del XV secolo sopra riportata si notano altri due tipi di bocche da fuoco, questa volta montate su supporti ruotati o addirittura basculanti. Con buona probabilità il realizzatore di questa opera si è ispirato a modelli osservati dal vivo e pertanto in uso a quel tempo.
Da notare sul terreno, accanto alle bombarde, i proiettili di pietra levigata che venivano generalmente caricati a mano attraverso la bocca da fuoco. Davanti ad essa si inserivano poi stracci, paglia o erba, per "calzare bene il proiettile" e ridurre la dispersione della carica dopo lo scoppio della polvere nera. Un processo lungo e faticoso che rendeva la procedura di caricamento estremamente lenta. Altra osservazione meritano i tasselli di legno inseriti dietro la culatta o sotto l'affusto, probabilmente usati come zeppe per correggere la traiettoria del tiro.
Nell'immagine sopra riportata, estrapolata dalle cronache del Froissart, si identificano altri modelli di bombarde del tipo "a doghe" montate su affusti ruotati. In mare si nota una nave del tipo "cocca", riconoscibile dal singolo albero maestro e dai castelli di prua e di poppa.
In questa immagine dell'assedio di Caen l'esercito francese di Carlo VII impiega delle bombarde a doghe direttamente adagiate al suolo. Alcuni incastellamenti improvvisati in legno mantengono in sede le bocche da fuoco durante lo sparo, mentre alcune palle di pietra giacciono sparse sul suolo. Osservando con più attenzione questa immagine si notano alcune tecniche d'assedio tipiche dell'epoca: gli assedianti hanno calato delle scale nel fossato (probabilmente dopo averlo prosciugato) e sono in procinto di scalare le mura, mentre dall'alto dei camminamenti i difensori scagliano pietre sulle loro teste. Sono presenti nella scena anche  alcuni arcieri ed un balestriere, intento a ricaricare la sua arma con un sistema a carrucola. Da notare il fatto che tutti i soldati vengono rappresentati con armatura a piastre di metallo scuro, (probabilmente ferro brunito), ed elmi a "bacinetto" dotati di visiera mobile. Tutti loro indossano una cotta d'arme sopra l'armatura e generalmente la cotta recava l'araldica della propria fazione, del signore o del capitano sotto il quale si prestava servizio. La cotta d'arme in uso nel '400 seguiva il gusto della moda di quel periodo, pertanto viene rappresentata come una veste priva di maniche molto corta, che raggiunge più o meno il bacino  o l'inguine.